Io, alcuni film con Jim Carrey, potrei anche doppiarli. Scemo & più Scemo, i due Ace Ventura, Bugiardo Bugiardo, The Mask, durante l’infanzia, li rivedevo diverse volte in un giorno, insieme ai cartoni animati della Disney e ad altre perle come Frankenstein Junior, e mi aiutavano a scoprire il mio lato comico, a uscire da me stesso, a non prendermi troppo sul serio, a saper stare in mezzo agli altri, agli adulti, anche, a osservarli dalla giusta distanza, per arrivare a capirli davvero, o almeno a provarci. Poi, con il passare del tempo, mi sono accorto che Jim Carrey era molto più di una maschera espressionista capace di illuminare qualsiasi commedia, ho visto film come The Truman Show (che mi ha sconvolto quasi come la lettura di 1984), Man On The Moon (che mi aveva incantato, anche se non capivo bene perché), Se mi lasci ti cancello (che mi aveva fatto capire che le storie d’amore, a volte, possono farti davvero star male, un male che poi ti porti dentro per sempre), e mi sono reso conto che lui, come pochi altri attori, aveva accompagnato la mia crescita, e non capivo come avesse fatto l’Academy a non premiarlo neanche una volta. 

E adesso che sono diventato adulto anche io, almeno credo, non è facile per me leggere la sua autobiografia Ricordi e bugie, pubblicata da La Nave di Teseo (tradotta da Tiziana Lo Porto), scritta insieme a Dana Vachon, romanziere e saggista americano. Non che non immaginassi cosa potesse nascondere la vita privata di uno degli attori più famosi di sempre, però, ecco, quando è proprio lui a raccontartela, pur attraverso il filtro di un romanziere, di quella finzione narrativa che banalmente potremmo definire deformazione professionale, ha un effetto leggermente diverso. Prima di leggere questo libro, sapevo che Jim Carrey stava vivendo un momento di crisi, che ormai dura da diversi anni, che è profondamente depresso, isolato dal mondo, che fa fatica ormai a scindere la realtà dalla finzione, che è disposto ad accettare solamente dei ruoli che siano in linea con il suo stato d’animo attuale (allora perché quel ruolo terribile nel film di Sonic?), che ha uno studio dove si rifugia per dipingere e che poi quei dipinti, ogni tanto, li condivide su Twitter. Non conoscevo la sua infanzia, il fatto che le sue prime gag comiche fossero nate da una necessità, da un bisogno viscerale, umano, per provare a distrarre la madre Kathleen dal suo dolore, dagli antidepressivi, dalla vita di stenti cui sembrava essere destinata insieme a suo marito Percy. Una vita lontana, diversa da quella che avrebbe fatto il loro Jimbo, che per un attimo è stato l’attore più pagato di Hollywood, tutto il mondo conosceva la sua faccia, anzi, le sue mille facce. A parte Tommy Lee Jones, che sul set di Batman Forever (in cui Jim interpretava l’enigmista) l’aveva preso di mira, dicendogli che lui era solo un buffone, tutti gli altri si erano accorti del suo talento puro, folle, geniale. Solo che la vita di prima, mescolata a quella che sarebbe arrivata dopo, ricadeva spesso su di lui, sui suoi umori, sulla sua stabilità, come se lui non riuscisse ad accettare il fatto di essere felice, una volta tanto. Oltre ad assumere pillole di ogni tipo, Jimbo andava spesso a Malibu, dove possedeva una casa da dieci milioni di dollari, e insieme agli “amici” Nicolas Cage, Sean Penn, Gwyneth Paltrow e altri faceva delle sedute spirituali con un celebre guru che nel libro viene chiamato Natchez Gushue. Un giorno invita anche una ragazza, con cui si fidanzerà presto, che gli chiede come siano rimasti lui e la sua ex, Renée Zellweger, e lui risponde: “Gli anziani navajo hanno unito i nostri spiriti, quello di Renée e il mio. E dopo che ci siamo lasciati è come se mi avessero lacerato l’anima. Ultimamente, sento che la ferita si sta chiudendo, sento di essere tornato intero”. E questo è niente, se si pensa che durante queste sedute Nicolas Cage racconta di come e di quando gli alieni hanno provato a impossessarsi del suo corpo. Cage, sì, che farà anche da testimone spirituale all’unione karmica tra Jim e quella ragazza (che nel libro prende il nome di Georgie), prima che i due facciano una luna di miele a New York, siedano in prima fila a teatro ospiti di Daniel Radcliffe, si aggiudichino a un’asta un dipinto di Frida Kahlo. Ma che si tratti della storia con Georgie, di tradirla con un’aspirante sosia di Marylin, di avere in casa un’opera di Basquiat o il bastone del suo idolo Charlot, di incontrare Charlie Kaufman che lo convince a interpretare Mao Zedong nel suo prossimo film, se c’è una costante in tutte queste piccole grandi storie, è che Jim Carrey non sembra mai davvero felice. Ci sono dei lampi, in cui sembra come dimenticarsi di quello che fa, di quello che è diventato, della vita che conduce, oppure in cui forse, per la prima volta, mette a fuoco la sua vita, che lo fanno sentire in conflitto con il mondo intero. È deluso, giustamente, per non aver vinto neanche un Oscar per The Truman Show o The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (chiamiamolo con il titolo originale, che è meglio), allora gira un film con Ewan McGregor, che finanzierà anche lui, in cui c’è una scena esplicita di sesso anale tra due uomini, e viene accusato di essere contro la famiglia americana. I suoi agenti gli propongono di riprendersi, magari con un film per famiglie, un film in cui quello che conta è che ci siano degli animali, e lui non accetta, dice che fare un film per famiglie è come “fare propaganda alle guerre”, che “servono solo a distogliere l’attenzione”. Nel periodo in cui è convinto davvero di essere Mao, organizza una festa a casa sua a tema orientale, e davanti alla Hollywood che conta rinnega il suo paese: “Non si prende cura dei suoi malati, se ne frega dei suoi poveri, non protegge i suoi bambini, abbandona i suoi veterani e gli anziani… il cittadino americano è così smarrito che non capisce che è un maiale da allevamento industriale, drogato e avvelenato dalla culla alla tomba, non sarà mai libero”. Jim tenderà piano piano a lasciarsi andare, a buttarsi via, ad accettare compromessi, a passare le giornate sul divano a guardare documentari su Netflix, a immaginare il resto della sua vita, e quindi della sua autobiografia, come una sorta di apocalisse, in cui non potrà più fidarsi di nessuno, soprattutto di se stesso.

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