Se è vero, come dice Ira Levin, che “sono i grandi problemi, non le soluzioni brillanti, a fare i grandi romanzi”, dovreste leggere Dove sei, mondo bello di Sally Rooney, pubblicato da Einaudi (tradotto da Maurizia Balmelli). Già dall’epigrafe, tratta da Le piccole virtù di Natalia Ginzburg, si intuiscono alcuni grandi temi del romanzo, le nostre aspettative, le nostre ambizioni, le nostre profonde insicurezze, il modo con cui proviamo a raccontare la nostra vita a noi stessi per renderla presentabile agli altri, le luci e le ombre, il bene e il male che convivono sempre dentro di noi. Il romanzo si apre nel bar di un albergo, in un paesino irlandese, con una donna che ha lo sguardo rivolto verso la porta, che aspetta un uomo che ha conosciuto su un’app di incontri. È qui, in questo senso di attesa, in questo chiedersi quello che succederà di lì a poco, che si trova l’atmosfera del romanzo. La donna che aspetta si chiama Alice, alter ego dell’autrice, l’uomo che sta per incontrare, invece, si chiama Felix, lavora in un magazzino, prende gli ordini dagli scaffali e li porta all’imballaggio. Quando lei dice di essere una scrittrice, lui le chiede di cosa parlano i suoi libri, e lei allora risponde: “Delle persone”. D’altronde, cosa c’è di più importante delle persone? Anche il romanzo che stiamo leggendo parla di questo, delle persone, e Sally Rooney, affidandosi un po’ alla metanarrazione senza mai forzare la mano, mentre ci racconta questa storia, riflette anche su quello che sarebbe giusto raccontare, in una storia, come se esistesse davvero un modo giusto e uno sbagliato per raccontare, come se riflettere sulle persone, su quello che le fa star bene e le fa star male, sulla loro continua e disperata ricerca del bello e della felicità, fosse immorale, quando al mondo ci sono problemi più importanti, come le guerre, la pandemia, la salute del pianeta. Alice, mentre conosce Felix e pianifica il tour europeo per presentare il suo libro, si scambia delle mail con Eileen, la sua amica del cuore, che vive a Dublino e lavora come redattrice per una rivista letteraria. Fino alla parte finale, il romanzo è costruito come una specie di ping-pong che va dal genere epistolare a quello tradizionale, dalla prima persona, con cui le amiche si aggiornano sulle loro vite, si danno e si chiedono consigli a vicenda, discutono di tutto, del tempo, della fama, dello stato dell’arte, della sessualità, del perdono, del bello, alla terza, in cui possiamo osservare le loro vite con quella che qualcuno chiamava “la giusta distanza”, e avere uno sguardo più chiaro, più lucido, sulle forme che può assumere la solitudine. Ai tre, si aggiunge Simon, consulente politico e amico di vecchia data di Alice e soprattutto di Eileen, di cui è innamorato da sempre. Le mail, per Alice ed Eileen e anche per noi che stiamo leggendo, rappresentano dei momenti di riflessione, delle piccole pause dal quotidiano, dal tempo che passa, un’occasione per fermarsi, per fare il punto, per provare a mettere a fuoco tutto quello che sta succedendo. Come si gestisce la fama? Come ci si comporta con quelli che pensano che una recensione o uno scoop possa bastare per conoscere una persona, e che un’opera d’arte, in fondo, sia un prodotto come tanti altri? Quando si comincerà a parlare veramente di sessualità, di sesso, senza spostare la questione, il dibattito sul genere? La bellezza si è persa quando la plastica è diventato il materiale più diffuso in circolazione o quando c’è stato il crollo dell’Unione Sovietica? È normale sentirsi più stanchi, più stressati, superati i trent’anni? Mentre le mail si rincorrono, Alice va a Roma per promuovere il suo libro e invita Felix che, anche se loro non si conoscono, accetta l’invito. Eileen e Simon tornano a frequentarsi, anche se lui esce con altre ragazze e lei ha paura di quello che prova per lui, non fa che smentire se stessa, le scelte che fa, se da un lato lo vorrebbe  tutto per sé, dall’altro un rapporto unico, classico, tradizionale, esclusivo, la terrorizza. Ognuno di loro, chi un modo, chi nell’altro, non fa altro che immaginare una vita felice, ma non appena succede qualcosa di bello, hanno un solo pensiero: “La mia vita deve per forza andare a rotoli”. E in un’epoca in cui il senso del bello si è trasformato, non solo per quanto riguarda i canoni classici, ma soprattutto per l’ossessione che imperversa sui social, dove tutti cercano di mostrare l’aspetto migliore delle loro vite, Alice, Eileen, Simon e Felix, nonostante i tentativi di autosabotarsi, cercano continuamente, disperatamente il bello, e lo cercano nelle piccole cose, nell’idea che esistano delle persone buone nel mondo sui cui si può sempre contare, nell’umanità fragile che nonostante le guerre, il riscaldamento globale, la fine del mondo che sembra imminente, ancora oggi, si strugge per un’amicizia deludente o per un amore che ti spezza il cuore.

Non lo so se è una mia impressione, ma mi pare che di lei, di questo romanzo in particolare, se ne sia parlato e se ne stia parlando troppo poco. E quando se ne parla, come capita spesso, in Italia, dai manuali di scuola agli inserti culturali, dagli scrittori aspiranti influencer alle bookblogger più accanite, lo si fa con toni generici, tipici di chi il libro, in fondo, non l’ha ancora letto (e forse non lo leggerà mai), e di chi sente quel bisogno inutile e anacronistico di etichettare tutto, di incasellare un libro, di costringerlo in qualche piccola categoria inventata da chissà chi (tipo la voce della generazione millennial). E in un paese in cui ormai, ogni mese, escono almeno quattro o cinque capolavori, secondo me, rischiamo di lasciarci travolgere dal passaparola, dalla paura folle di non scomparire, di promuovere autori e autrici sperando che un giorno quelli possano ricambiare e fare lo stesso con i libri che ancora non abbiamo scritto, ecco, e di perdere, quindi, in questa marea, quei pochi libri che veramente meritano la nostra attenzione, i nostri pensieri, la nostra memoria, il nostro tempo. 

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