Cronaca dell’anteprima romana dell’attesissimo film di Jason Reitman con Finn Wolfhard.

Non lo so se ho mai creduto nei fantasmi. Quand’ero piccolo, li trovavo nelle sorprese degli ovetti kinder, li collezionavo, non vedevo l’ora che arrivasse la notte per spegnere la luce e poterli vedere al buio, immaginando che fossero sospesi nel vuoto. Quando sono diventato grande, i fantasmi sono diventati metafore, simboli, li nominavo solo quando ripensavo alle cose che erano successe, quelle che mi avevano fatto un po’ male, per non scoprirmi troppo, rimanendo sul vago. Mi piaceva Casper, sì, e ovviamente Ghostbusters, il film, uscito quattro anni prima che io nascessi, che ho recuperato, credo, intorno alla metà degli anni Novanta. 

Mi piacevano gli attori, la storia, l’atmosfera che percepivo tutte le volte che lo guardavo, la patina tipica degli anni Ottanta, riconoscibile nella musica, nelle acconciature, nei vestiti, quella patina che presto sarebbe tornata di moda. Nel tempo ho scoperto che il film aveva incassato più di 300 milioni di dollari (più di un miliardo, se si contano i gadget che sono stati venduti), che la parte di Bill Murray, originariamente, era stata scritta per John Belushi (scomparso nel 1982, due anni prima dell’uscita del film), mentre quella di Ernie Hudson era stata prevista per Eddie Murphy (che però aveva già accettato la parte di Axel Foley, protagonista di Beverly Hills Cop), che l’idea del film era venuta a Dan Akroyd, ossessionato in quel periodo dai fenomeni paranormali, e che in Italia il film aveva incassato più del fortunatissimo (e bellissimo, direi) Non ci resta che piangere

Nonostante questo, non è mai diventato un cult nel mio immaginario, anche se lo è diventato, poi, in quello di tanti altri, però mi sono ritrovato comunque, senza meritarlo, forse, all’anteprima europea del film Ghostbusters: Legacy, all’Auditorium Conciliazione, in occasione della Festa del cinema di Roma. Ho scoperto di essere finito all’anteprima europea del nuovissimo Ghostbusters, una volta che sono arrivato lì, quando ho sentito il motivetto famosissimo di Ray Parker Jr. all’ingresso, mentre mi controllavano il green pass, quando ho visto la macchina originale del film con davanti dei tipi vestiti da acchiappafantasmi, con tanto di tuta e zaino protonico, farsi i selfie con alcuni spettatori, quando mi sono accorto che per ogni spettatore c’era una maglietta in omaggio, con il logo classico del film, quando ho scoperto che a pochi metri da me era seduto Gil Kenan, co-sceneggiatore del film insieme a Jason Reitman, regista del film e figlio di Ivan Reitman, che aveva diretto il primo film. Io Jason Reitman lo conoscevo per le sue produzioni indie, da Thank You For Smoking a Juno, da Tra le nuvole a Tully, per aver affidato al mitico Adam Sandler uno dei pochi ruoli “seri” della sua carriera e per aver riportato Charlize Theron tra noi comuni mortali, almeno per un po’. Eccolo lì, invece, che ci parla in un videomessaggio, che ci saluta e confessa che gli dispiace di non essere qui in mezzo a noi, a vedere l’anteprima europea del suo film, e ci chiede di immaginare come sarebbe, per noi, andare a lavoro tutte le mattine insieme a nostro padre, che sta lì accanto a noi e ci dice quello che dobbiamo fare, come dovremmo comportarci, quale sarebbe la scelta giusta da fare, perché questo è quello che è successo a lui, girando il film, che anche grazie a questo aneddoto assume sempre più il carattere di legacy, di eredità. La trama del film è molto semplice, una madre single (interpretata da Carrie Coon, eroina della serie Fargo), con i figli Phoebe e Trevor (la bravissima Mckenna Grace e il cresciutissimo Fin Wolfhard, conosciuto per il ruolo di Mike in Stranger Things), viene sfrattata e va ad abitare nella fattoria sperduta ereditata dal padre, il grande Egon Spengler (interpretato dal compianto Harold Ramis, cui è dedicato il film), a Summerville, su cui campeggia la scritta dirt (“sporco”). L’interesse per Phoebe nei confronti della scienza, della spiegazione dei fenomeni naturali e non solo, stimolato anche dal prof. Grooberson (interpretato dal grande Paul Rudd), la porteranno a scoprire gli angoli più segreti della casa, dove il nonno ha nascosto tutti gli strumenti per combattere e acchiappare i fantasmi (il rilevatore di energia psicocinetica, la ghost-trap, le griglie di contenimento). Come lo sviluppo di una foto in una camera oscura, piano piano, nel film, ritornano delle figure che ci sembrano familiari, dai fantasmi più classici, buffi e allo stesso tempo spaventosi, all’uomo “marshmallow”, che appare anche in una versione mini, ridotta, in mezzo agli scaffali di un supermercato, che sembra dolcissimo, fino ad arrivare alla divinità sumera (Sumerville?) Gozer che è pronta per reincarnarsi e per scatenare, di nuovo, dopo quasi quarant’anni, la fine del mondo. Ci sono diverse sorprese, diversi ritorni che fanno anche commuovere, e l’unica cosa che posso dire, senza rivelare nulla, è di non alzarsi appena partono i titoli di coda. “Sembra Stranger Things”, diranno quelli nati dal duemila in poi, dopo aver visto i cattivi ribollire, scoppiare, venire su dagli abissi della terra. “Casomai è Stranger Things che sembra Ghostbusters”, risponderanno tutti gli altri. Il film, grazie a una sceneggiatura felice, divertente, alla bravura di tutti gli attori (tra i comprimari, su tutti, spicca un bambino, compagno di classe di Phoebe, che si fa chiamare Podcast), agli effetti speciali, sonori e visivi, è meraviglioso, e rispetto ad altre opere, in cui la nostalgia rischia di risultare forzata e macchiettistica, riesce a creare veramente un ponte con gli anni Ottanta, a rendere credibile il concetto di eredità, e ci aiuta a riscoprire l’aspetto più semplice, più luminoso, più umano che abbiamo dentro di noi. 

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