Ho letto tanto di Murakami Haruki, e ci sono diverse cose che mi fanno pensare a lui. Che so, i Beatles, la musica jazz, le rane, i gatti, la scuola, le maratone, l’adolescenza intesa come una condizione psicofisica, esistenziale, come un modo di guardare il mondo. Oltre ai suoi romanzi, alle sue raccolte di racconti, mi vengono in mente i suoi libri sulla musica (Ritratti in jazz, Assolutamente musica), sulla scrittura (Il mestiere dello scrittore), sulla corsa (L’arte di correre). Autoritratti, dialoghi, memoir, diari, saggi, attraverso cui Murakami cerca di lasciarsi andare, esce per un po’ dalla dimensione delle fiction e si apre con i suoi lettori, trattandoli come se fossero amici di vecchia data. Come tutti gli scrittori, ogni tanto, si ripete, ma questo, in fondo, mi piace, non solo perché mi regala una sensazione di familiarità, come se Murakami fosse lì, cioè qui, davanti a me, e io gli dicessi Sì, sì, questo me l’hai già raccontato, ma anche perché mi dà l’idea che quello che racconta è vero, e non sente il bisogno di preoccuparsi di avermelo già raccontato.
Murakami si sveglia alle 4 di mattina e scrive per sei ore, bevendo caffè caldo. È convinto che, insieme al talento, la qualità più importante per uno scrittore sia la concentrazione, e la cosa bella di essere uno scrittore è di poter andare a letto presto e alzarsi di buon mattino. Sono cinque i passaggi fondamentali della sua scrittura: mettere in ordine la scrivania, riempire almeno dieci fogli da quattrocento caratteri al giorno, abbandonare il romanzo per una settimana dopo aver finito la prima stesura, abbandonarlo per un mese dopo averlo riletto per bene, farlo leggere a qualcuno che ti sta vicino. È appassionato di jazz e musica classica, ma quando corre preferisce ascoltare il rock, gli piacciono i Red Hot Chili Peppers, i Gorillaz, i Beach Boys, Beck. La musica, secondo lui, “esiste per rendere felice la gente”. Anche se, dialogando con il grande direttore d’orchestra Ozawa Seiji, ha capito che è il lavoro a procurarti la gioia più genuina, che non bisogna mai perdere l’ostinazione che avevamo durante la giovinezza. Le cose importanti, comunque, non si imparano a scuola, e rubando una frase di Brian Adams, Murakami è convinto che avrà diciott’anni fino alla morte.
Ci sono diverse cose che mi fanno pensare a Murakami, comunque. Lo so, l’ho già scritto, ma per fortuna, qui, non siamo mica a scuola, dove c’è il professore che ti propina il dizionario dei sinonimi e dei contrari perché è assolutamente vietato ripetersi. Tra quelle cose che mi fanno pensare a lui, da qualche tempo, si sono aggiunte anche le t-shirt.
Su Instagram ho postato una foto del nuovo libro di Murakami, T. Le mie amate t-shirt, pubblicato da Einaudi e tradotto (magnificamente, come sempre) da Antonietta Pastore. Ho scritto che io Murakami lo leggerei anche se scrivesse un libro sulle sue magliette. Suonava come una battuta, vista l’immagine, ma è la verità. Sarà che anch’io sono un collezionista di magliette, che quando ne vedo una che mi piace, anche se so che non mi serve, che a casa ne avrò un centinaio, la compro, per via del colore, della stampa, non troppo vistosa, di quello che c’è scritto davanti o dietro. Ma al di là dell’idea, Murakami è riuscito a riportare nella scrittura l’esperienza traumatica del trasloco, o almeno di una piccola parte di esso. Oggetti, in questo caso magliette, che segnano giorni, esperienze, momenti, memorie della tua vita passata, di quello che sei stato, di quello che sei diventato oggi. La maglietta, allora, non è solo un indumento, che chi di mestiere fa lo scrittore può indossare anche tutti i giorni, dalla mattina alla sera.
La maglietta rappresenta un modo di essere, una filosofia di vita, un inno alla semplicità e alla leggerezza. “Intendiamoci – confessa Murakami – non penso che un libro del genere possa servire a qualcosa o a qualcuno, ma potrebbe avere un senso – per le generazioni future, riguardo agli usi e costumi delle epoche passate – sapere che dalla seconda metà di un certo secolo un certo scrittore ha condotto una vita più o meno rilassata indossando ogni giorno indumenti molto semplici”.
Allora ecco le magliette degli anni Ottanta, quando Murakami abitava a Fujisawa, praticava il surf e ascoltava Paul McCartney e Michael Jackson, che si portano addosso il suono dell’ukulele e l’immagine del sole che scende e si nasconde nel mare. Quelle che rimandano alle marche di whisky, la bevanda preferita di Murakami, visto che nella birra c’è troppa acqua, il vino è troppo elegante e il Martini richiede troppa preparazione. Quelle che ricordano alcune delle tappe fisse dei suoi viaggi, nei negozi di vinili, soprattutto a New York, Stoccolma, Copenaghen. Poi ci sono le magliette prese ai concerti, nelle università, nelle librerie. Murakami ricorda i sandwich-mendegli anni Cinquanta, che andavano in giro con dei cartelli appesi davanti e dietro per promuovere attività di ogni tipo, che erano come delle pubblicità ambulanti, e che riscuotevano un certo successo prima dell’avvento della tv. E a pensarci bene, poi, è quello che facciamo tutti noi ogni giorno, soprattutto quando arriva l’estate. Viaggiamo, ci muoviamo, camminiamo avanti e indietro, indossando magliette piene di immagini, di scritte, di messaggi. C’è quello che ci piace, che ci interessa, i luoghi che abbiamo visitato. Ci sono i nostri gusti, le nostre attitudini, i nostri hobby. Sono come delle anteprime, dei trailer delle persone che siamo, delle persone che vorremmo essere. Sono come dei segni del nostro passaggio, della nostra storia, delle nostre storie, la traccia della nostra esistenza, che con il tempo ha preso forma entrando in contatto con quelle degli altri.
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