C’è una scena, in una serie tv che sto guardando in questi giorni, in cui Ben, il protagonista, più o meno trentenne, va a trovare il padre perché ha bisogno di soldi. Si incontrano in una libreria, e il padre, quando lo vede, gli chiede il motivo di quella visita, visto che è un po’ che non si fa vedere. Ben esita un po’ e poi gli dice di aver pensato molto al suo futuro. “Allora ti farà male la testa”, gli risponde il padre. 

Non è una scena che resterà nella storia della tv, forse verrà dimenticata anche da quelli che l’hanno immaginata, pensata, scritta, però, ecco, descrive bene quello che è il mio rapporto con la figura paterna. È vero, i padri non sono stati e non saranno tutti come mio padre, però in parte sì, almeno per me. Sono cresciuto con queste risposte canzonatorie, con la sensazione, con la paura, una paura che poi è diventata certezza, di non poter mai essere preso veramente sul serio, per diversi motivi, perché ero solo un bambino, poi solo un adolescente, poi solo uno studente universitario, poi uno che aveva scelto il mondo umanistico, un artista, uno dei tanti che sogna di campare con le idee che gli vengono durante il giorno o quando scende la sera, con dei personaggi immaginari, uno che vive inseguendo la finzione e non ha ancora capito che la realtà appartiene alle persone che si svegliano all’alba tutte le mattine per andare a lavoro. 

Il fatto che io, poi, mentre diventavo uno che scriveva dei libri e che insegnava letteratura al liceo, sia anche diventato padre, non mi ha aiutato a mettere a fuoco il discorso e a fare veramente pace con questa figura, con questa presenza, con questo ruolo, con quella che nel paese dove vivo, purtroppo, sembra rappresentare ancora come una sorta di istituzione. Meno male che, insieme all’esperienza, ai cambiamenti che avvengono fuori e dentro di noi, ci sono anche i libri, perché in fondo è proprio dai libri che ho letto e che continuo a leggere che è nato questo racconto. È appena uscito Ombelicale di Andrés Neuman, pubblicato da Einaudi (traduzione di Silvia Sichel, pp. 128, 15 euro), un racconto, una raccolta di frammenti, una cronaca in una forma ibrida, narrativa e poetica, dei sentimenti nuovi che provoca l’attesa e poi la nascita del primo figlio (il libro è diviso in due parti, l’immaginato e l’apparso). A pensarci bene, nell’autunno del 2020, quando stavo per diventare padre, sarebbe stato rassicurante avere tra le mani un libro del genere, poterlo sfogliare all’occorrenza, quando ne avevo bisogno, sapere che qualcuno, che so, dall’altra parte del mondo, stava cercando di prepararsi, di mettere a fuoco il futuro, di immaginarlo, e lo stava facendo attraverso la scrittura. Neuman pensa alla sua compagna, che nel momento dell’attesa ha due cuori, che si sente una che “dà alloggio”, più che una “creatrice”. Cerca degli indizi nelle “tracce rupestri” delle prime ecografie, canta tutto il giorno alla pancia “per far sì che, gradatamente, le orecchie esistano”, e pensa al figlio che scopre il buio nel momento in cui impara ad aprire gli occhi. Intanto, mentre si fanno come delle prove d’amore, un amore nuovo, mentre il battito del cuore somiglia a “un rumore di cavalli”, arrivano i primi vestiti, prima della nascita, e ci si chiede: “Che razza di fantasma si veste in anteprima?”. Poi arriva il grande giorno e il mondo cambia, per sempre, e tornano le prime volte, il primo bagnetto che è come un battesimo, come un ritorno all’origine, la testa minuscola, “misto di pietra e piuma”, che “sta tutta nel palmo della mano”, la pelle che sa “di limone non spremuto e di latte sottinteso”, il desiderio di fare qualsiasi cosa prima di saperla fare, la sensazione che sia sempre tutto in continuo divenire, la meraviglia dell’incompiutezza, del tempo che non può fermarsi, della felicità che cambia forma ogni giorno. Avrei preferito leggere questo piccolo libro magico di Neuman, invece di quelli pseudo-motivazionali che tendevano più alla stand up comedy che all’empatia, alla vulnerabilità, al racconto sincero delle proprie emozioni. Perché io non immaginavo mica di svenire, vomitare, non mi preoccupavo del mio conto corrente, non pensavo che una donna incinta fosse più incinta che donna. Io avevo la stessa sensazione, gli stessi pensieri di quando ero solo uno studente all’università: Che fortuna che ho, adesso, che devo solo studiare, fare gli esami, ma poi, quando mi prenderò la prima laurea, quando mi prenderò anche la seconda, ecco, quando tutto questo finirà, quando metterò piede fuori da queste mura, da questa città universitaria, da questo paradiso artificiale che mi protegge dai pericoli dell’età adulta, del mondo dei grandi, cosa farò? 

“Mentre ti dico, nasco”, scrive Neuman, è proprio così. Ora che mi sono abituato all’idea di essere padre, ora che non posso più immaginare o ricordare una vita che non comprenda mia figlia, ora che sono nato, di nuovo, e sono appena uscito dalla tempesta dei pannolini, del ciuccio, delle notti quasi insonni, mi rendo conto che, in realtà, ci sono stati dei libri, dei film, delle serie, che mi hanno guidato, che mi hanno fatto capire, ancora una volta, come la finzione, la fiction, o l’autofiction in alcuni casi, mi abbia aiutato a leggere e a decifrare la realtà. Nel romanzo Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer (pubblicato in Italia da Guanda), uno dei più belli usciti negli ultimi vent’anni, il protagonista, un bambino di nove anni di nome Oskar, ricorda il padre, scomparso tragicamente l’11 settembre, mentre viaggia alla ricerca di sé e delle sue origini. E il loro rapporto, che sopravvive nella memoria del figlio che si fa grande nonostante la mancanza del padre, mi ha insegnato che non esistono regole prestabilite per fare il padre, per essere credibile, ecco. Il padre di Oskar, che come il mio profumava di schiuma da barba, corregge gli articoli che escono sul New York Times, racconta barzellette al figlio, gioca a fare la lotta greco-romana con lui nel ripostiglio. E il figlio, nel ricordo puro di questo amore libero e incondizionato, capisce una grande verità: “La storia della mia vita è la storia di tutti quelli che ho conosciuto finora”. 

In Geologia di un padre (Einaudi), Valerio Magrelli scrive 83 capitoli, tanti quanti gli anni vissuti dal padre. Quasi come Roland Barthes in Dove lei non è (tradotto proprio da Magrelli), l’autore cerca nella propria memoria alcune immagini che possano restituirgli un ritratto fedele del padre, e lo fa con un tono leggero, per spezzare i meccanismi impietosi del dolore e della nostalgia. Il padre che amava così tanto il caffè che alla fine lo è diventato anche lui, che fumava come un “dolce Brucaliffo”, che non riusciva a tollerare neanche i più piccoli affronti, una sorta di Ulisse della quotidianità, che non sapeva gestire le ore vuote, come se fosse “avvelenato dal Tempo”. Magrelli si chiede a che età si smette di essere orfani, si autoproclama “orfano ad honorem”, mentre a me viene da pensare che forse non è necessaria la morte per sentirsi orfani. E oltre a Foer, Magrelli, Michele Mari di Leggenda privata (Einaudi), Khemiri de La clausola del padre (Einaudi), Zambra di Poeta cileno (Sellerio), oltre ai classici, ai libri che ho letto nelle varie fasi della mia vita, ci sono anche alcune serie, alcuni film che mi sono rimasti impressi. Penso a Molto incinta di Judd Apatow, al panico di Ben (interpretato da Seth Rogen) che non sa come passare da una sorta di comune con gli amici fatta di bong, bagni in piscina e partite di ping pong, a un mondo di appuntamenti, scadenze, responsabilità. Penso alla figura ingombrante del padre in Big Fish, il film più bello di Tim Burton, e in The Meyerowitz Storiesdi Noah Baumbach, ideali per capire quanto sia difficile crescere, andare avanti, diventare adulti, diventare padre, quando c’è qualcuno che non riesce a non trattarti solamente come un figlio. Penso alla serie Trying, in cui Jason e Nikki cercano, tra mille ostacoli, di adottare un figlio, e Jason, che in apparenza sembra quello meno maturo, meno pronto, in realtà è quello che riesce a rendere sempre tutto più leggero, più semplice, ad essere padre ancora prima di diventarlo. 

E in un mondo pieno di luoghi comuni, di ruoli preconfezionati da commedia dell’arte, se c’è una cosa che ho capito è che non esistono regole o istruzioni, libri che possano istruirci su quello che dovremo fare con i nostri figli e, perché no, con i nostri padri. Che rientra tutto in quella storia del diventare grandi, adulti, e che aveva ragione, come sempre, Mattia Torre, quando diceva: “A sedici anni sapevo tutto, leggero, incosciente, coraggioso. A venti i primi dubbi, intorno ai venticinque le prime incertezze, a ventotto il terreno ha iniziato a mancarmi sotto ai piedi e a trent’anni non capivo più niente”. 

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