Eleven. Will. Mike. Upside down. Demogorgon. “Friends don’t lie”. I Joy Division, il walkie talkie, Dungeons & Drangons, i libri di Tolkien, le VHS, il walkman, E.T., i Ghostbusters. Una delle cose belle di Stranger Things è che sembra tutto così familiare. Non sono tanto i riferimenti, le citazioni, gli omaggi, no, è più che altro una sensazione, una specie di nostalgia, una nostalgia strana, particolare, anche di un mondo che non abbiamo mai vissuto, ma che somiglia molto a quello che ci hanno raccontato, a come l’abbiamo sempre immaginato. Un mondo che non è poi così male, a pensarci bene, dove gli adulti, quasi tutti, si fidano dei bambini e sanno ascoltarli, dove ci sono i buoni che combattono i cattivi, dei cattivi che possono essere mostri o dottori, e non si capisce mai chi sia quello più pericoloso. 

L’unico difetto di Stranger Things è che dura poco, che prima o poi finisce sempre, che anche se uno se lo rivedesse tutto basterebbe un giorno e non verremmo neanche accusati di binge watching. E poi, in fondo, c’è quella strana sensazione che tutto il resto, tutto quello che vediamo tra una stagione e l’altra di Stranger Things, non sia altro che questo, un passatempo, un diversivo, un modo per ingannare il tempo, per convincere noi stessi che non stiamo più pensando a Stranger Things, che non stiamo aspettando una nuova stagione, che non vogliamo davvero sapere cosa c’è lassù nel cielo, anzi laggiù, che è come se fosse un temporale al contrario, con un ragno gigante in mezzo, e chissà come andrà a finire. Il 4 luglio è vicino, per fortuna, e nel frattempo, perché di questo si tratta, di un frattempo, ho rivisto tutt’e due le stagioni, lo speciale Oltre Stranger Things, sempre su Netflix, con le interviste a tutti gli attori, ho cominciato anche a spiare i loro profili su Instagram, la mia ragazza mi ha persino regalato un pupazzetto di Eleven che mangia le cialde. Così, per prepararmi, per ripassare, ecco, per farmi trovare pronto. Poi ho scoperto un libro, Stranger Things. La guida completa di Nadia Bailey, illustrato da Phil Costantinesco e pubblicato da Centauria (traduzione di Cristina Pradella, pp. 136, 19,90 euro), che per chi non l’avesse ancora letto potrebbe cominciare a farlo adesso, magari guardando il calendario, dividendosi le pagine giorno per giorno, per ingannare il tempo, per arrivare al 4 luglio prima degli altri. 

Non c’è un ordine nel libro, un po’ come nella città di Hawkins. Dentro ci si trova di tutto. Io sono partito da un quiz, sarà che ho sempre amato i quiz, almeno quanto le statistiche e gli elenchi. È un quiz che sembra uno di quei test attitudinali, con domande tipo cosa mangi per colazione, cosa ne pensi di tua madre e di tuo padre, com’è la tua casa, come reagiscono i tuoi se ti succede qualcosa. Un quiz per capire a quale famiglia appartieni, se a quella stramba dei Byers, a quella borghese dei Wheeler o magari a quella magica, che si forma per caso, di Hopper con Eleven. Il libro può diventare un ricettario, con gli ingredienti per preparare il dolce a tre strati di cialde Eggo che ogni tanto Hopper prepara a Eleven, o una guida turistica di Hawkins, dove si trovano tutti i luoghi in cui si muovono i personaggi, in cui va in scena la storia, dalla scuola media al castello Byers nel bosco, dalla sala giochi al laboratorio nazionale, dove in fondo si trova la Porta per il Sottosopra. Ci sono i profili dei protagonisti, quelli dei mostri, dalla larva di Demogorgone al Mind Flayer, ci sono ritagli di giornali inventati e dichiarazioni d’amore nei confronti dei personaggi scomparsi, tipo Barbara Holland e Bob Newby. È un libro che ci fa tornare in quell’atmosfera patinata degli anni Ottanta, da lacca sui capelli, da London Calling, che riaccende le lucine natalizie, in quella città che non sembra quasi mai al sicuro. Ma alla fine arrivano i bambini, quei bambini che piano piano si stanno facendo grandi, quei bambini che poi in fondo siamo noi. E come sempre, prima dei compiti, prima dell’amore, prima di qualsiasi cosa, ci tocca salvare il mondo.

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