“Chi ben comincia è a metà dell’opera”? Forse no. Io direi più: chi comincia è a metà dell’opera. Sì, perché tutto sta nel cominciare, in fondo, che si tratti di un romanzo, di un racconto, di un pezzo che parla di come e quanto cominciare sia la cosa più difficile per uno scrittore. Soprattutto oggi, che siamo così distratti, che secondo una statistica tocchiamo il nostro smartphone 2617 volte al giorno, che ci sono le serie su Netflix e Amazon Prime, che il foglio bianco non è più di carta, magari, ma è impossibile da toccare, ha le sembianze di una pagina qualunque di Word in cui lampeggia un trattino verticale, come fosse un conto alla rovescia, e in alto a sinistra c’è scritto “inizio”. 

E meno male che è tornato in libreria Incipit, pubblicato da Skira (G. Papi, F. Presutto, R. Renzi, A. Stella, introduzione di Umberto Eco, pp. 592, 19 euro) in un’edizione ampliata con “2001 modi per iniziare un romanzo” (rispetto ai 1430 dell’edizione del ’93). Un libro fatto tutto di inizi, appunto, di storie appena iniziate, di blocchi superati, di pagine bianche scampate, che rassicura più di un corso di scrittura qualunque, più di qualsiasi libro dove uno scrittore famoso ti racconta quando si è accorto di voler diventare uno scrittore, com’è che è diventato famoso. Il titolo, poi, Incipit, che deriva dal latino e significa “incominciare”, era anche il titolo immaginato da Calvino per uno dei suoi ultimi romanzi, quello che poi è diventato Se una notte d’inverno un viaggiatore

Leggere questo libro è come tornare a scuola, in una di quelle mattine in cui ci sembra di non avere più idee, e ci sentiamo smarriti. Ci hanno chiesto di scrivere, il tempo e stringe e noi non sappiamo da dove cominciare, alziamo lo sguardo, spiamo i fogli dei nostri compagni per vedere come hanno cominciato loro. Dovremmo cominciare a scrivere il nostro primo romanzo, ma non sappiamo come. Sarebbe bello un attacco a sorpresa, uno di quelli che il lettore non si aspetta, che magari sta tornando a casa, di corsa, fa un salto in libreria, cerca qualcosa, un romanzo, una storia che faccia per lui, che lo tiri un po’ su. “Tutti i bambini crescono, meno uno”, però, mica male l’incipit di Peter Pan. Certo anche Grossman nel suo A un cerbiatto somiglia il mio amore non scherza: “Ehi, tu, sta’ zitta! Chi è? Sta’ zitta! Hai svegliato tutti! Ma io la tenevo per mano”. E se volessimo svelare subito il nome del protagonista o di uno dei personaggi? È troppo scontato, troppo brutale? Tipo Banana Yoshimoto, magari: “In queste pagine la chiamerò Lucertola”. O forse è meglio una cosa più elaborata alla Dickens di Grandi speranze: “Il cognome di mio padre essendo Pirrip e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua infantile non riuscì mai a cavare da entrambi nulla di più lungo o di più esplicito di Pip”. Se è vero che stiamo scrivendo una storia d’amore, anzi, se è vero che in fondo sono tutte storie d’amore, forse dovremmo rifarci a Svevo, al suo Senilità: “Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria”. Però nel 2019 un incipit così sembrerebbe un po’ strano, un po’ troppo letterario, qualche lettore potrebbe insospettirsi, o potrebbe semplicemente conoscere a memoria i romanzi di Svevo. Servirebbe qualcosa di più asciutto, qualcosa di pop, tipo Jonathan Coe ne La casa del sonno: “Era l’ultima lite, almeno questo era chiaro”. Oppure direttamente una definizione dell’amore mai sentita prima, tipo Aldo Nove in Puerto Plata Market: “L’amore ha lo stesso meccanismo del gratta e vinci”. Ma il nostro romanzo parlerà anche di amicizia? Perché nel caso anche l’incipit di Arancia meccanica potrebbe fare al caso nostro: “Allora che si fa, eh? C’ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, Cioè Pete, Georgie, e Bamba. Bamba perché era davvero Bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d’inverno, ma asciutta”. Anzi, cominciamo dalla famiglia, così andiamo sul sicuro, qualcosa alla Tolstoj di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Anche se Tolstoj è Tolstoj, lui se lo può permettere, altri correrebbero il rischio della frase fatta. Meglio Philip Roth, uno dei primi Philip Roth, Lamento di Portnoy: “Era incastonata così profondamente nella mia coscienza che penso di aver creduto, durante tutto il primo anno di scuola, che ognuna delle insegnanti fosse mia madre sotto altre spoglie”. Bisogna pensarci bene, però, capire se la nostra sarà o meno una storia realistica, il compromesso ideale potrebbe essere l’inizio di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut: “È tutto accaduto, più o meno”. Oh, questo sì, potrebbe funzionare. D’ora in poi sarà tutto in discesa, dovremmo solo andare avanti, arrivare alla fine. Fino alla prossima pagina bianca, fino al prossimo trattino verticale che lampeggia, prima che un’altra storia possa finalmente cominciare.  

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